“Scorrerà sangue” hanno detto gli economisti di JP Morgan, la più grande banca americana, il “Giorno della Liberazione” (2 aprile), quando Donald Trump ha annunciato i suoi dazi “reciproci” su tutte le importazioni statunitensi. JP Morgan ha aumentato al 60% la probabilità che la guerra dei dazi inneschi una recessione globale. Il FMI prevede che la crescita globale sarà inferiore di 0,8 punti percentuali rispetto alle precedenti previsioni per il 2025, scendendo al 2,8% quest’anno, a causa degli aumenti dei dazi da parte degli Stati Uniti e dell’incertezza su cosa accadrà in seguito. Nel suo ultimo rapporto, l’UNCTAD, l’agenzia delle Nazioni Unite per il commercio, è molto più pessimista. L’UNCTAD prevede che la crescita globale rallenterà ad appena il 2,3% quest’anno, un valore inferiore al livello fissato dall’UNCTAD come segnale di recessione mondiale, pari al 2,5%. L’UNCTAD sottolinea che, sebbene “il rallentamento colpirà tutte le nazioni”, lo farà più duramente con la maggior parte dei “Paesi in via di sviluppo e in particolare le economie più vulnerabili”. Solo 10 dei quasi 200 partner commerciali degli Stati Uniti rappresentano quasi il 90% del suo deficit commerciale. Eppure, i Paesi meno sviluppati e i piccoli Stati insulari in via di sviluppo – responsabili rispettivamente di appena l’1,6% e lo 0,4% del deficit statunitense – sono i più colpiti. Molte economie a basso reddito si trovano ora ad affrontare una “tempesta perfetta” tra peggioramento delle condizioni esterne, livelli di debito insostenibili e rallentamento della crescita interna. All’inizio di maggio anche Standard & Poor ha segnalato maggiore incertezza del quadro economico.
Il miglior indicatore per capire se ci sarà una crisi è ciò che sta accadendo al saggio di profitto complessivo, di cui gli utili aziendali sono una parte. Le società statunitensi pubblicheranno i loro risultati finanziari nelle prossime due settimane. Ma se guardiamo ai dati ufficiali degli utili aziendali, fino al quarto trimestre del 2024, tutto sembra ragionevolmente a posto. Gli utili aziendali statunitensi sono aumentati notevolmente dall’inizio della pandemia di COVID-19, raggiungendo quasi i 4.000 miliardi di dollari alla fine del 2024. Gli utili delle industrie non finanziarie nazionali, che rappresentavano in media l’8,1% del reddito nazionale nel periodo 2010-19, sono saliti all’11,2% nell’ultimo trimestre del 2024. Rispetto al reddito nazionale, si tratta di un aumento del 2,3% rispetto al periodo precedente la pandemia. Anche a livello globale, gli utili aziendali continuano a crescere, seppur a un ritmo relativamente debole.
Finché il saggio di profitto continuerà a crescere, una recessione sarà improbabile, e gli utili aziendali possono essere un indicatore. Tuttavia, gran parte della crescita degli utili negli Stati Uniti è stata ottenuta grazie a un calo dei tassi di interesse che ha ridotto il costo del debito. E le aziende non hanno investito la maggior parte di questi maggiori profitti in nuove attrezzature e impianti. Invece, il 76% della crescita degli utili aziendali è stato destinato ai dividendi che premiano gli azionisti. Solo il 15% è stato investito (il resto è andato in tasse). Utili aziendali, dividendi, tasse sono tutte frazioni del profitto, che si produce nel processo di produzione del plusvalore, là dove avviene lo sfruttamento della capacità lavorativa.
Lo stesso sviluppo industriale è la causa della riduzione della redditività del capitale investito nel processo di produzione del plusvalore. L’aumento della massa di mezzi di produzione messi in moto dalla stessa quantità di capacità lavorativa riduce la percentuale del plusvalore rispetto al capitale complessivo. L’aumento della scala della produzione fa sì che sia sempre più necessario il ricorso al credito e all’intervento dello stato; tutto questo ha un costo, un aumento della spesa per interessi e del carico fiscale, che riduce la quota di profitto che rimane al capitalista industriale. Lo stesso aumento della massa di mezzi di produzione necessario all’avvio di un nuovo ciclo industriale spinge le imprese a costituirsi in società per azioni; gli azionisti investono in vista di un dividendo, e i dividendi distribuiti riducono ulteriormente la quota di profitto destinato all’accumulazione. Ci troviamo quindi di fronte ad una sovracapitalizzazione strutturale.
Il quadro descritto sopra è un quadro di stagnazione, più che di recessione. È a questo punto che si inserisce l’azione dei governi, che si muovono in tre direzioni: tenere sotto controllo la classe operaia, sostenere la produzione nazionale, conquistare nuovi mercati e nuove fonti di materie prime a questa produzione. Anche l’azione della nuova amministrazione USA, al di là delle intemperanze di linguaggio del presidente, si muove all’interno di questo schema.
Il Segretario al Tesoro USA Scott Bessent, in un recente discorso all’Institute of International Finance, poco prima della riunione semestrale del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale, ha lanciato un duro attacco al FMI accusandolo di “chiudere un occhio sul predominio economico della Cina, guidato dalle esportazioni, e trascurare le sue responsabilità fondamentali a favore del lavoro sulle politiche climatiche e sociali”. Bessent ha sostanzialmente affermato che il FMI si era “risvegliato” enfatizzando il cambiamento climatico, l’uguaglianza di genere e le questioni sociali. “Queste non sono la missione del FMI”, ha dichiarato che stavano “spiazzando” il lavoro appropriato su “stabilità finanziaria e sorveglianza commerciale”.
Le critiche più aspre si sono riservate sul trattamento riservato dal FMI alla Cina: “Non tollereremo che il FMI non critichi i paesi che ne hanno più bisogno, principalmente i paesi in surplus”, ha affermato. “Il FMI deve denunciare paesi come la Cina che hanno perseguito politiche distorsive a livello globale e pratiche valutarie opache per molti decenni”.
Gli attacchi di Bessent sono stati presto recepiti dal capo del FMI Georgieva. Con il suo solito atteggiamento servile, ha sostanzialmente accettato le critiche di Bessent e ha incolpato gli stati in surplus commerciale come la Cina per la guerra dei dazi (che, tra l’altro, riguardano la maggior parte delle principali economie!).
Come si vede, l’azione del governo USA non ha niente a che vedere con l’instabilità mentale di Trump, ma si inserisce in un insieme coerente di politiche tendenti a riaffermare il predominio USA nel mondo, predominio che passa in primo luogo attraverso un peggioramento delle ragioni di scambio con gli stati a più basso reddito.
Secondo l’UNCTAD (United Nations Conference on Trade And Development) le regioni in via di sviluppo si trovano ad affrontare un contesto sempre più difficile. L’imposizione di crescenti ondate di dazi avrà un impatto sproporzionatamente elevato (sia direttamente che indirettamente) sui paesi in via di sviluppo, in particolare su quelli maggiormente integrati nelle catene di approvvigionamento globali. Analogamente, l’elevata incertezza politica e i conseguenti ritardi nelle decisioni di investimento e assunzione avranno un effetto frenante sia sull’occupazione che sui redditi delle famiglie.
Secondo la recente analisi sulla sostenibilità del debito del FMI, oltre la metà degli stati a basso reddito – 35 su un totale di 68 – si trova attualmente in difficoltà debitoria o ad alto rischio di difficoltà debitoria. La prospettiva di una politica monetaria più restrittiva a lungo termine negli Stati Uniti, così come i rendimenti insolitamente elevati dei titoli di Stato nelle principali economie avanzate, indicano un ulteriore spiazzamento dei flussi finanziari verso i paesi in via di sviluppo. Ciò si aggiunge al difficile scenario economico per gli stati del Sud del mondo.
La politica di riarmo aggrava la situazione. L’attuale svolta verso maggiori spese per il riarmo e minori spese per le esigenze sociali si sviluppa sulla scia del precedente periodo di austerità. La spesa bellica globale ha raggiunto i 2.460 miliardi di dollari nel 2024, rispetto ai 2.240 miliardi di dollari del 2023. La crescita in termini reali è salita al 7,4% nel 2024 rispetto al 6,5% del 2023 e al 3,5% del 2022. In percentuale del PIL, la spesa globale è aumentata da una media dell’1,59% nel 2022 all’1,80% nel 2023 e all’1,94% nel 2024. La crescita della spesa europea per la difesa è salita all’11,7% in termini reali nel 2024. La significativa crescita reale del 23,2% della spesa bellica tedesca, tra il 2023 e il 2024, lo ha reso il 4° bilancio militare più grande del mondo. Nel complesso, la spesa regionale in Europa è stata superiore di oltre il 50% in termini nominali rispetto al 2014.
L’aumento della spesa militare verrà finanziato attraverso tagli alle altre voci di bilancio, come dimostra la proposta di usare i fondi di coesione dell’Unione Europea per le politiche di riarmo, e attraverso un aumento del debito pubblico, come dimostra l’allentamento delle regole di bilancio in Germania e la proposta di escludere le spese militari dal calcolo del deficit di bilancio nell’Unione Europea. L’aumento del debito pubblico autorizza i governi a ricorrere maggiormente al mercato dei capitali; l’aumento della domanda sul mercato dei capitali porterà ad un aumento dei tassi d’interesse che, come si è visto, colpirà le aree economicamente più deboli e i consumi popolari. Scorrerà il sangue. Ma sarà quello delle classi sfruttate e dei popoli oppressi.
Lona Lenti